L'intervista di Federica Cabras


"Prestare i propri occhi a chi non può vedere": la parola a Laura Lanzi

25 giugno 2021 - Federica Cabras


Si dice che le grandi persone arrivino in punta di piedi e facciano, appunto, grandi cose quasi in silenzio, come se la loro missione fosse sia migliorare il mondo che farlo con garbo e dolcezza. Si dice anche che siano fatte per tre quarti di tenacia e perseveranza e per il restante quarto di gentilezza e disponibilità. Ah, pare che sembrino più luminose delle altre, o così dicono. E si dice anche che, quando le si incontra, le si sappia riconoscere subito. Be’, io – che ho sempre vissuto nel mio mondo di fantasia e continuo a farlo, sebbene le candeline spente lo scorso compleanno siano, ahimè, già trenta – non sono di certo una portatrice di verità assolute, giammai!, ma una cosa la so, e posso affermarla a gran voce: Laura Lanzi è una grande persona.
Ma concentriamoci sul suo lavoro... Ecco, definirlo “importante” è sottovalutarlo.
Non ci credete? Ecco a voi.
Importante, per il dizionario Treccani, vuol dire:
“Di cosa, che per sé stessa o in rapporto a determinate circostanze, a determinati fini, è di gran conto o rilievo e deve essere tenuta nella dovuta e seria considerazione”.
Sì, certo, anche, mi verrebbe da dire, ma io definirei il lavoro della Lanzi – oltre che, appunto, “di rilievo” e da tenere in “seria considerazione” – anche “imprescindibile”, “necessario”, “ammirevole” e altri tre o quattro aggettivi bellissimi acciuffati dalla più grande enciclopedia italiana di arti, lettere e scienze.
Eh, perché lei presta i propri occhi a chi non li ha. Rende l’arte fruibile a 360 gradi, inglobando le categorie di disabili che, senza il suo aiuto, non avrebbero gli strumenti per conoscerla a fondo, per assaporare un quadro, per godere della bellezza di una scultura, per perdersi in paesaggi e profili e pennellate.
Noi di Società dei Sogni l’abbiamo intervistata.

1. “Prestare i tuoi occhi agli altri”, insomma, rendere il mondo dell’arte fruibile anche ai non vedenti: hai capito presto, durante i primi anni di università, che questo sarebbe stato un sogno e una sfida insieme. Ci racconti del periodo in cui, studentessa universitaria, hai deciso che l’argomento di cui ti saresti voluta occupare era l’accessibilità museale rivolta a chi ha delle disabilità?

Credo sia tutto nato da una semplice intuizione. Era l’estate del 2006, mi preparavo per il secondo anno di Università nel corso di Beni Culturali a Cagliari e accadde un episodio particolare, in cui un non vedente mi chiese di descrivergli la Gioconda. Per un attimo non sapevo come fare, poi mi sciolsi i capelli, mi misi in posa e recitai la parte della Monna Lisa. Quando accarezzandomi disse che “la vedeva” esclamai dentro di me “allora si può fare!”.

2. Come si è svolto il tuo percorso? È stato difficile avvicinarsi a un mondo ai più sconosciuto? Quando e come è diventato più semplice – perché magari aumentava la sensibilità delle persone al tema?

Circa un mese dopo, contattai la mia professoressa di Storia dell’arte delle superiori a cui sono molto legata, le parlai dell’episodio e subito mi accompagnò dalla direttrice della Pinacoteca Nazionale di Cagliari, che al tempo si occupava di rendere l’arte fruibile ai non vedenti. Conoscere lei mi aprì un mondo, iniziai a studiare scoprendo che c’erano in Italia diversi musei specializzati, come ad Ancona e a Bologna. Non è stato difficile avvicinarmi all’accessibilità, ho sempre incontrato persone meravigliose ed estremamente sensibili pronte ad aiutarmi; ho avuto anche la grande fortuna di conoscere docenti universitari disposti a darmi sostegno e fiducia. Difficile è stato, piuttosto, far capire ai musei stessi e alle altre persone che era una cosa fondamentale. Il museo vieta a chiunque di toccare le opere, e per un non vedente il tatto è il primo mezzo di fruizione. La sensibilità c’è, mancano forse una conoscenza adeguata e una legislazione più specifica.

3. In che modo si agisce per “mostrare” a chi non può vedere un’opera bidimensionale, come un quadro o una fotografia?

Esistono diversi metodi, il più conosciuto è quello di riprodurre le opere d’arte bidimensionali con i bassorilievi prospettici. L’esperienza dell’esplorazione tattile, accompagnata dal racconto, permette in qualche modo di ricreare le immagini nella mente e dà la percezione delle forme, cosa possibile ovviamente in persone che hanno perso la vista nel corso della loro vita.
Io ho optato sempre per qualcosa di molto più economico e artigianale: copiavo l’immagine in un pannello in forex e tracciavo i contorni con i pennarelli per bambini, quelli che si gonfiano al contatto con l’aria. Ottenevo così delle linee in rilievo, che una volta indurite rendevano quell’immagine tangibile.

4. L’importanza di raccontare: so che per te rendere partecipi i non vedenti non è solo far vedere in modi alternativi quell’opera ma narrarla, renderla interessante, creare una sinergia e un interesse profondo. Di fatto, questo è qualcosa di bello in generale: far innamorare le persone dell’arte tramite la propria voce è magico. Come agisci, in questo senso? Lasci scorrere il tuo stesso amore per l’arte o prepari singoli progetti per singole opere?

Solitamente mi preparo, ma a volte ho anche improvvisato! Credo che il mio modo di raccontare le opere sia determinato da un profondo amore verso l’arte, non è nemmeno troppo razionale. Lo racconto con lo stesso entusiasmo che provo osservandole. Se le descrivo a chi non vede sento la responsabilità di farle vedere attraverso i miei occhi, se le racconto agli studenti a scuola durante i periodi di supplenza, e a chi vede, provo la stessa cosa.

5. Che importanza ha, di fatto, la tecnologia in questo percorso? Immagino sia fondamentale.

La tecnologia ha un ruolo fondamentale, l’ho capito soprattutto negli ultimi due anni partecipando al progetto Over the View. Il mio ruolo è stato quello di consulente per i retabli pittorici, e mi ha dato la possibilità di imparare moltissimo. Nonostante l’importanza della tecnologia è comunque fondamentale che ci sia sempre una guida, il valore delle parole durante una visita guidata resta, per me, insostituibile.

6. In che modo, negli anni, i musei si sono “adattati” alla necessità dell’accessibilità dell’arte a tutti?

I musei si sono adattati, e continuano a farlo, semplicemente attraverso la conoscenza. Quando non c’è consapevolezza è quasi ovvio che nessuno fa qualcosa per cambiare una situazione. Ora c’è più attenzione, c’è maggiore sensibilità, c’è il desiderio di rendere l’arte fruibile a tutti. Quindi anche i musei adattano i loro percorsi espositivi rendendoli accessibili.

7. Quali peculiarità deve possedere una guida museale per poter aprire le porte dell’arte a tutti?

Come per tutti i lavori, credo che le cose si possano fare bene solo se svolte con amore e passione. Una guida museale deve essere competente ma soprattutto empatica. Devi conoscere perfettamente il percorso espositivo, ma devi anche saperlo raccontare.

8. Come ti senti quando pensi di essere stata tra le prime persone dell’Isola a combattere con tutta la tua energia affinché iniziasse un grande cambiamento?

Premetto che in questo ambito sono tante le persone che da anni profondono il loro impegno nella ricerca di possibili soluzioni. Pertanto, non mi ritengo assolutamente una pioniera, bensì parte di un gruppo che naviga verso un comune obiettivo.

9. Il momento più duro: ce lo racconti?

Momenti duri sicuramente tanti, poiché come anticipato per me è stato un sogno ma allo stesso tempo una sfida. Probabilmente i periodi più difficili sono stati quelli durante i quali avrei voluto impegnarmi con tutte le mie forze in questo ambito, ma da studentessa universitaria e lavoratrice non è sempre stato possibile.

10. Progetti futuri?

Attualmente lavoro per il consorzio Camù che opera nell’ambito culturale a Cagliari. Esperienza lavorativa avviatasi recentemente, che mi vede parte del settore dei servizi educativi e della didattica. Con lo stesso gruppo stiamo definendo numerosi progetti legati all’accessibilità museale.
Ad oggi credo di aver realizzato tanti dei miei sogni, incluso quello di aver trovato “il mio posto