Talentuoso, preciso e con una penna fuori dal comune: lo scrittore Giovanni De Santis si racconta
Laureato in Medicina Molecolare, Giovanni De Santis è anche un ideatore di mondi. Preciso, talentuoso e con una penna che pare arrivare direttamente dal passato – uno stile, il suo, ricercato e formale, fatto di frasi lunghe e pregne di significato e di termini desueti –, il ventottenne è uno scrittore che, sebbene emergente, vanta una maturità letteraria fuori dal comune.
Si dice che per poter scrivere ci voglia una fiamma, qualcosa che arde dentro e che brucia. Ah, si dice anche che sia necessario dedicare anima e corpo a quello che si ha in mente di produrre. Be’, Giovanni De Santis ha un fuoco dentro; il suo libro d’esordio ne è l’esempio lampante.
In quest’intervista, brilla la luce della passione. Tramite le sue parole, entriamo in un mondo, quello del De Santis, che è fatto di caparbia tenacia, di studio matto e disperatissimo e di voglia di far combaciare al meglio le sue due vite, quella dello scienziato e quella dell’artista – entrambe insite in lui –, diverse eppur legate.
Come e quando nasce in te l’amore per la scrittura?
Si potrebbe dire di molti autori emergenti che abbiano sempre conservato un barlume di affetto per questo mondo; se non da piccolissimi, quantomeno una fiammella di interesse mantenuta viva negli anni subito precedenti il loro esordio. Per me non è stato così: io sono molto estraneo a questo mondo. Non ho mai avuto l’ambizione di diventare uno scrittore. Non ho mai avuto la passione per la lettura. Ero un ragazzo pigro che amava gingillarsi con le fesserie del suo tempo. Quantomeno, è stato così sino a una buona metà della mia adolescenza.
Poi c’è stata la fioritura di qualcosa che non pensavo esistesse in me. Ho cominciato a leggere, suonare, disegnare (in realtà quest’ultimo hobby l’ho mantenuto dalla mia infanzia). Ad un certo punto, in un periodo di fragilità, ho cominciato ad attaccarmi all’unica cosa che realmente mi forniva un solido senso di soddisfazione: la lettura. Così ho cominciato a comprare più libri di quanti ne potessi leggere. Il primo libro che ho letto seriamente, con maggior cognizione di causa, è stato Dracula di Abraham Stoker. Gli altri testi di cui oggi porto un amorevole ricordo si sono susseguiti con rapidità e costanza; è stato come se avessi cominciato a costruirmi il mio background culturale, quello che mi era sempre mancato, di punto in bianco.
Alla fine mi sono detto “Perché no?”. Qual era la domanda? Era “Chissà cosa succederebbe se provassi a buttar giù qualche riga? Perché no?” Ed eccomi allora, quasi sei anni dopo la fatidica domanda, ad avere più di cinque idee per altrettante storie diverse che aspettano d’esser prodotte. Tuttavia, come ho detto all’inizio, non è stato un qualcosa che ho amato sin dal principio. Tutt’altro: ho odiato scrivere fin quando non ho visto realizzarsi la pubblicazione del Cyrawëlleni.
Perché ho continuato a scrivere allora? Era l’unica cosa che mi manteneva in vita, mentalmente parlando. E soprattutto, era l’unica cosa, in quel periodo della mia vita, che davvero mi dava immensa soddisfazione. Lo è tutt’ora. In altre parole “Odi et amo”.
Parliamo del tuo libro: quando ti è venuta l’ispirazione? In che modo e periodo si è concretizzata?
Sono sempre stato un Tolkieniano accanito. Prima con i film sul Signore degli Anelli, poi con i libri. Ho cominciato a scrivere mentre frequentavo l’ultimo anno della triennale a Bari. All’epoca il Cyrawëlleni non esisteva neanche. Stavo scrivendo il prologo de “La Dama Impossibile”, la mia opera principale, se così posso definirla. È un racconto, a mio avviso, molto entusiasmante che sto portando avanti. Tuttavia, all’incirca quando arrivai al secondo capitolo, mi resi conto che gli mancava qualcosa: era il contesto. Una storia solida – intesa come background storico – assieme a tutti quei piccoli fronzoletti che danno maggiore spessore all’intera vicenda. E questo era un male, non avrei mai pubblicato qualcosa di scialbo e privo di un certo appealing.
Allora decisi di tornare indietro, e di costruire per me stesso quel background sotto forma di appunti. Cominciai ad immaginare il mio universo sin dalle origini. Gli diedi un nome: Ùna. Creai un Creatore: Eloïs Mokrà. Immaginai dei figli che abitassero i mondi creati dal Creatore. E via discorrendo. Tutto ciò, proprio come aveva fatto Tolkien; proprio come egli ne parlava nel suo “Silmarillion”. Così cominciai a leggerlo (il Silmarillion), e mi resi conto che era davvero un’opera impressionante. Pensai dunque “È davvero elegante come scelta, quella di portare in vita il Mondo per ciò che è, all’infuori della storia che si vuole raccontare”. E più proseguivo nel caratterizzare il mio Universo, più mi affezionavo ad esso: i personaggi venivano fuori quasi da soli, parlavano da sé e per sé, interagivano con gli altri come avessero vita propria. Era come se supplicassero di esser portati alla vita.
Fu durante l’ultimo anno di magistrale che decisi che avrei fatto qualcosa di molto simile a quello che aveva fatto Tolkien. Decisi che prima de La Dama Impossibile avrei realizzato la trilogia del Cyrawëlleni, e che tutto quanto si può dire sul mio Universo sarebbe stato detto.
Il tuo libro veicola dei messaggi?
Inizialmente non mi importava molto di “insegnare qualcosa”; Ce n’è così tanta di saggezza là fuori, che certo non ne serve dell’altra. Ancora una volta mi sono dovuto ricredere.
È stato curioso notare come, quasi senza volerlo, stessi effettivamente producendo un lavoro dedicato interamente all’auto-miglioramento. Nel Voïnarya non si parla quasi d’altro che dell’amore per le cose create, e di quanto questo sia direttamente proporzionale alla fatica e al tempo spesi per crearle; che, di tutte quelle cose che si ottengono con semplicità, niuna porti davvero grande soddisfazione, poiché effimere e incapaci di fare breccia nel portone d’ingresso della nostra anima.
È questo il messaggio che mi sono ritrovato a scrivere quasi senza saperlo: serve tempo, sudore e determinazione per apprezzare davvero quel che si ha. È più semplice amare qualcosa quando si ha combattuto con le unghie e con i denti per ottenerla. È stato così per me con il Voïnarya, con la laurea magistrale e il 110 e lode che sono riuscito a strappare per il rotto della cuffia, e con ogni altro successo della mia vita. E questo è, se vogliamo, in perfetta contrapposizione con la società di oggi: un luogo dove ormai possiamo avere tutto quasi senza sforzarci. Insegniamo ai nostri giovani che tutto è a portata di mano; che i sogni sono il retaggio di un’epoca in cui bisognava davvero fare qualcosa, e che invece oggi, in un modo o nell’altro, tutto andrà a finire esattamente come lo volevamo. Beh non è così e, presto o tardi, arriverà quella doccia fredda. Arriverà il giorno in cui ci si guarderà intorno, cercando, fra tutte quelle banalità che abbiamo accumulato, le cose che davvero contano per noi. Solo chi avrà davvero creato qualcosa, come Eloïs Mokrà e i suoi Voïni, potrà dirsi appagato e avviarsi al lungo silenzio senza rimorsi.
Pregi e difetti del tuo essere scrittore: guardati da fuori, analizzati. Cosa potresti dirci?
Sono un perfezionista. Ed è quello che è. Sicuramente mi ha permesso di costruire qualcosa di assolutamente non banale, con un certo spessore e di una certa rilevanza. Ma mi ha anche condizionato in una maniera che, ad oggi, mi sento di definire “irreversibile”. Questa “mania”, questa voglia di ottenere sempre di più, mi ha portato spesso sull’orlo di una crisi di nervi, mentre scrivevo il Voïnarya. Ogni volta c’era qualcosa che non andava, ogni volta era meglio come l’avevo scritta dieci volte prima, ma ormai era troppo tardi e non mi ricordavo più com’era. Poi però tornavano gli scrupoli e pensavo che si sarebbe potuto far di meglio, e quindi giù con il tasto “del” sulla tastiera e si ricomincia il paragrafo. Ciò mi ha spinto verso un sempre maggior perfezionamento dell’arte, ma ad un costo assai salato.
Probabilmente mi pongo degli obiettivi un po’ troppo alti. Forse era meglio se continuavo con i videogames.
Coniugare la scrittura con la laurea specialistica in Medicina Molecolare: come ci sei riuscito?
Potrei quasi rispondere dicendo che, in effetti, NON ci sono riuscito. È stato un inferno. Parlarne mi provoca una sorta di magone sulla bocca dello stomaco. La mia facoltà è una delle più difficili in assoluto; mi sono ritrovato a studiare materie così complesse, anche da un punto di vista di logica associazione tra vari concetti, che buona parte del mio tempo ne era completamente assorbito. La giornata tipo era “sveglia alle 8.00, studio dalle 9.00 alle 20.00, scrittura dalle 20.00 alle 23.59”. A mezzanotte crollavo sul letto con una sorta di sensazione di nausea, la mente intorpidita e la voglia di mollare. C’era sempre, però, quell’amore per la storia che stavo scrivendo a darmi forza; in un modo o nell’altro, cadevo sempre tra le sue braccia e, in un modo o nell’altro, quelle cinque pagine al giorno riuscivo sempre a scriverle.
Ah, dimenticavo, talvolta trovavo anche il tempo di leggere e studiare le opere principali che mi hanno influenzato. Perché non si può nulla senza un accurato e approfondito studio di ciò a cui ci si ispira: non cominci un esperimento senza prima aver studiato tutta la letteratura scientifica che circola sull’argomento. Mai.
Ti senti più scrittore o scienziato?
Non ho avuto ancora modo di testare le mie capacità di scienziato. Mi sono laureato in periodo Covid, e questo ha portato ad un rallentamento di quasi ogni attività lavorativa. Sicuramente, uno dei settori molto penalizzati, è stata l’università. Il mio sogno è diventare professore universitario, ma naturalmente per poterci arrivare dovrei prima ottenere un PhD (un dottorato di ricerca); avendo però io dovuto rallentare la mia carriera per causa covid, ancora non sono riuscito ad iniziare tale percorso di studio. Ed è in questi tre (o quattro) anni che si testano le vere competenze di un ricercatore.
Per quanto riguarda lo scrivere, non mi sono mai sentito uno scrittore, perché nel mio immaginario scrittore è colui che ci nasce in quell’ambiente, che ha conoscenze, supporto dai suoi pari e una certa affinità con tutto quel che vi riguardi. Si certo, scrivo e mi presento formalmente come un autore, visto che SONO autore di un libro, ma non per questo vado a dire in giro che sono uno scrittore. Amo scrivere e vorrei farlo per il resto della mia vita, ma il mio percorso è ancora lungo e non mi piace trarre conclusioni affrettate.
Quindi, tirando le somme, forse sono soltanto un cretino che si è complicato la vita, scegliendo due ambiti tanto diversi che mal si coniugano.
Pareri sul libro: cosa ti hanno detto i lettori?
Non è stato accolto nella maniera che mi ero immaginato. In realtà mento un po’ a me stesso quando dico che mi aspettavo un clamore assai più robusto. In cuor mio sapevo già che avrebbe avuto poca risonanza. La verità è che vado molto contro corrente: scrivo in una maniera assai particolare, usando termini e modi di strutturare le frasi che si sono persi nel corso degli anni. Il mio intento era (ed è tutt’ora) proprio quello di esaltare la lingua e le sue fronzolose peculiarità. Questo mi è stato fortemente criticato e, sebbene un po’ me lo aspettassi, non ho potuto fare a meno di dispiacermene.
Ciò detto, ho anche avuto molta approvazione da talaltri, che invece mi hanno incoraggiato su questo aspetto, dandomi addirittura del “temerario”. Mi hanno elogiato per l’impegno che ho messo nel creare la lingua del Talenir, la mappa di Vaölos, e una storia tanto intricata e ben fornita di dettagli e corposità minori. Mi hanno chiesto come io abbia fatto a tirar fuori dal nulla una simile storia, pur avendo tratto ispirazione da altri. E questo, beh, penso sia sicuramente il complimento più appagante che si possa ricevere.
La recensione più bella che ti è stata fatta è.. ?
"La fiamma divampò nel vuoto e lo rese da subito buio, poiché essa era invece luminosa e risplendeva senza mai esaurire il proprio fulgore".
Una lingua e le sue regole. Un universo all'alba della vita. La scintilla che dal nulla crea il passato.
Così si apre quest'opera, con il compito di non lasciare nell'oblio ciò che ha dato origine a Vaölos.
Fra il vuoto e le fiamme, nel silenzio del nulla fino al calore della Grande Tempesta, l'autore dipana i fili di un romanzo epico che si veste di arcano e si spoglia del banale. Sono i Voïnarya, i Canti degli Eterni.
È un'opera che non si può riassumere con poche e blande parole. Perché fin dalle prime pagine, già con l'avvento dei Voïnu, c'è nella narrazione anche l'intento di restituire la magnificenza di cose che furono. Dal Creatore sul suo scranno di fiamme, ai Mendoli, ossia i Minori, per passare alla minaccia dell'eterno opposto, il Vuoto. Storie di popoli, di esplorazioni e conquiste, dove la creazione delle due gemelle Voïni si alterna alle vicende delle genti Eldelane, come quella di Armonios ed Elosin. E mentre il Vuoto, nemico della Fiamma, getta scompiglio su Vaölos, si assiste estasiati alla nascita di Andonil, Fiamma del Mattino, e Tolinil, Lume Ombroso, ossia il sole e la luna.
È un lavoro, questo, che ha radici forti.
Lo stile dell'autore si sposa bene con lo spessore dell'opera. A una genesi fantasy che si ispira al mondo Tolkieniano si affianca una narrazione che procedere con un linguaggio aulico, nutrito e pieno. Spesso ci si imbatte in pensiero che Dante e Petrarca avrebbero racchiuso senza problemi nei loro lavori tanto si presentano scritte con una particolare ricercatezza.
È un libro che mi sentirei di consigliare agli amanti della trilogia di Tolkien, soprattutto se hanno apprezzato "Il Silmarillion" : in queste pagine si percepisce l'impronta dei Valar, di Ilùvatar e di quella che sarà la Terra di Mezzo. Un'impronta leggera che poi prende strade completamente diverse.
Un testo che affronta i temi del male e del bene, nell'eterna lotta che ogni creatura, fantasy o meno, deve affrontare. E per uscirne vincitori occorre solo ricordare che "ombra e fuoco si contrapposero a vicenda per tutta l'eternità", ma noi possiamo decidere da quale parte stare.
Se potessi prendere un caffè con un autore importante che senti ti abbia influenzato a chi scriveresti per accordarti su luogo e orario?
Se avessi avuto a cinque anni l’amore che nutro oggi per Tolkien e il suo lavoro, probabilmente alla domanda “Cosa vuoi fare da grande?” avrei risposto “Tolkien”. Senza troppi “se” e “ma”. Naturalmente adesso sono cresciuto e ho cominciato (poiché ancora non ho finito) a sviluppare una mia propria identità letteraria; quindi, ahimè, non ci sarà un Tolkien parte seconda per adesso. Ciò detto, sicuramente mi piacerebbe passeggiare con lui per i viali del Merton College ad Oxford.
Eppure, non sarei onesto se non ammettessi che c’è anche un altro illustre maestro del passato, al quale sarei onorato di stringere la mano: Howard Phillips Lovecraft, che mi ha fatto innamorare con una sfrenata passione al mondo del macabro e del grottesco. Ci sono anche Andrzej Sapkowski, autore della saga The Witcher; J.K. Rowling, autrice della saga di Harry Potter.
Cosa non sopporteresti mai di sentirti dire sul tuo testo e perché?
Quello che già alcuni mi hanno detto: che scrivo in una maniera troppo desueta, e che il pubblico richiede un linguaggio ben più semplice e intuitivo. Mi è stato chiesto “chi ti credi di essere per scrivere come si faceva cinquecento anni fa?”
Si può pur pensare di tralasciare le eventuali considerazioni nel merito dell’impegno con cui una persona si dedica alla stesura di un testo, alle difficoltà che a fatica sormonta, alla gargantuesca quantità di tempo che vi dedica, e a quanto terribile sia sentirsi dire – fatte queste premesse – che un testo semplicemente non va bene da un punto di vista stilistico. Facciamo lo sforzo di sentirci immuni a qualsivoglia tipo di critica e attacco. È – io mi domando – oggettivamente una critica sensata? No. Mi piace talvolta pormi domande di cui conosco già la risposta. La ragione di questa mia affermazione, ovverosia che è una critica sterile, è connotata da un pragmatismo ineccepibile. Mi spiego: se una buonissima fetta di persone non riesce (perché alla fin fine stiamo parlando di questo) a leggere un determinato tipo di linguaggio (il mio, nella fattispecie, siccome quello di molti altri autori del passato a questo punto, dato che è a loro che sono ispirate le mie parole), è lecito far orbitare tutto il mercato intorno alle esigenze di suddetti individui? È lecito quindi affossare, imbruttire, insterilire la nostra beneamata lingua, che tanto di bello ha da offrire, solo perché molti non sono capaci di usarla? O forse, io mi domando, sarebbero quelle persone a doversi sforzare un po’ di più? Perché alla fine di questo stiamo parlando: di voglia e di tempo. Alla fine andiamo sempre lì a parare, sul tempo che si dedica alle cose. Più tempo uguale più soddisfazione. Forse, la vera domanda che dovremmo porci è “Quando abbiamo perso la voglia di perdere tempo?”
Quando l’auto-pubblicazione è una scelta: come ti sei avvicinato al mondo del self-publishing? Hai preso in considerazione un editore o è stata una scelta scartata a priori?
Ho avuto sin da subito il terrore di avvicinarmi all’editoria classica. Questo è in specie del tipo di opera che stavo costruendo; infatti, era una consapevolezza – quella che le CE mi avrebbero potuto scartare – che si radicava man mano che il lavoro prendeva forma. Un linguaggio come quello che ho usato, come ho già avuto modo di dire nel corso dell’intervista, non si presta molto bene per essere letto dalla quasi totalità del pubblico, e in cuor mio ne ero consapevole.
Se da un lato è vero che questo mi ha fatto desistere, dall’altro andrebbe detto – a onor del vero – che non è stata una scelta facile. Per quasi tre mesi ho vissuto un conflitto interiore, mentre ponderavo la possibile scelta tra self e CE. Conoscevo già Amazon e i servizi di KDP; tutto quel che ho dovuto fare in più è stato informarmi meglio sulla qual cosa e capire se, come si suol dire, il gioco ne sarebbe valso la candela. Col senno di poi, ancora non so se sia stata la scelta migliore: sicuramente, è stata la scelta che sentivo di prendere in quel momento.
Spesso si considera il fantasy – insieme al romance, vanno a braccetto in questo – un genere di serie B, come se solo l’horror, il thriller e la narrativa generale potessero stare sul podio dei veri vincitori. Cosa senti di dire a chi fa queste categorizzazioni?
Si bistratta quello che non si comprende appieno. Forse quelle persone, che tanto lo disprezzano e lo relegano a bassa scrittura, dovrebbero leggerne di più e comprendere davvero ciò che è il genere Fantasy. Peraltro, mi irrita terribilmente questa sciocca competizione di genere, come se giudicarne uno migliore di un altro avesse davvero una qualche sorta di rilevanza. Un libro è quel che è: STOP. Ho amato Stephen King nel suo The Mist, che non si capisce bene se si possa definire Thriller o Fantasy (a mio avviso); ho letto e apprezzato la narrativa gotica di fine ‘800, che probabilmente potremmo considerarla come il precursore dello stesso genere fantasy (eppure oggi alcuni di questi classici vengono considerati “narrativa generale”, chissà perché). Apprezzo enormemente alcuni scrittori emergenti di mia conoscenza, che, a punto, scrivono talvolta opere di genere e altre volte libri che si sovrappongono a più generi. Il punto è: ma che importanza ha? Harry Potter è forse la storia urban/low fantasy più famosa al mondo, eppure nessuno si sognerebbe mai di vietargli il suddetto podio.
Sul romance non mi esprimo: né scrivo, né leggo.
Che futuro ha, secondo te, l’editoria?
Né più né meno di quello che sta già accadendo: continuerà ad esistere nel suo universo circostanziato, con le sue nicchie elitarie a fare dell’arte ciò cui loro riesce meglio. E forse è giusto così. Se prima parlavo di timore nei confronti delle CE, di titubanza e di incertezza, ora dico che, in effetti, non è un male. Lo sbarramento è necessario affinché l’arte rimanga pura. Certo è, comunque, che i tempi cambiano, e ora si va molto più incontro alle esigenze del pubblico e dei “pubblicatori”. Quindi alla fine potremmo dire che l’editoria è forse come un grande organismo vivente, che riceve stimoli e si adatta ad essi. Una cosa rimane e rimarrà per sempre: se le persone smetteranno di leggere (e questo è ad oggi il trend, checché se ne possa dire il contrario talvolta) non vi sarà un futuro roseo all’orizzonte, e l’adattamento di cui accennavo prima sarà violento e drastico.
Potresti regalare ai lettori una citazione del tuo libro?
“ … Si portarono allora in grembo d’uno stagno argentato, che tuttavia era sempre più grande man mano che con l’occhi lo si misurava; sinché non ebbero più modo di scrutare i suoi opposti risvolti, e lì ristarono ammirati perché mai avevano visto un mare prima d’ora, e sembrava loro una cosa bellissima che avrebbero osservato per tutta l’Eternità; placido e mosso com’era al contempo, sottendendo il volere di brezze e spire, ché il suo volto Armonios vide incresparsi nel riflesso delle limpide acque; e le schiume delle sue onde andavan sempre più a riverberar l’azzurrino dei suoi toni, e le rocce parevan crestarsene come corone di acquamarina e verdi alghe, Signori dei profondi domini che salutavan coi litei sorrisi all’adunanza che ivi si era riunita.”
C’è una domanda che non ti ho fatto?
“Ti piace il tuo libro?”
Odi et amo. Chi scrive e lo fa con il cuore vivrà sempre con l’orrore di aver commesso errori irrimediabili, di aver potuto fare di più e di aver invece trascurato l’opera, di aver scritto e discusso di qualcosa in cui non si crede davvero, oppure di non aver semplicemente mai voluto cominciare a scrivere. Poi però lo guardi, tutto bello e rilegato, assai simile a come te lo immaginavi mentre eri all’opera, e ti lasci andare alla soddisfazione di veder carne e fogli il frutto della tua fatica, e penso che niente possa essere più appagante di questa sensazione.
Federica Cabras, 11 settembre 2021