Le nostre azioni cercano un fine, un motivo, un obiettivo da conseguire. Il senso del fare motiva il fare stesso.
Il "tanto per ..." in fondo non lo è mai afinalistico. Studiamo per essere preparati in qualcosa, ci alleniamo per vincere una gara o per lo meno dare il meglio. Tutto è finalizzato al minor fallimento possibile. Una cascata di endorfine che migliori ogni prestazione e generi emozioni positive. "Il fare per stare meglio", così da battere sentieri che arrivano da qualche altra parte, in un affaccendarsi teorico e pratico che non lascia tregua a battute d'arresto o fallimenti.
Forse un'altra prospettiva può essere presa di considerazione.
Forse veramente può esistere il "fare tanto per..." come azione importante in se stessa: "faccio senza proiettarmi necessariamente al traguardo ma al percorso, a me stesso in ogni fase del mio essere".
Cosa impegnativa è per chi vive delusioni e sconfitte, che siano rotture di relazioni sentimentali, insuccessi lavorativi, mancati riconoscimenti sociali , malattie che minano la salute e la vita, trovare il senso compiuto (un senso compiuto secondo le proprie aspettative) che faccia dire "ho fatto per qualcosa.
Quindi? Dobbiamo abbassare l'asticella delle attese? O rimodulare i nostri sensi?
Non abbiamo il ricettario per la torta perfetta. Stiamo invece lavorando sul patteggiamento con noi stessi. Sulla possibilità che sia possibile ricercare piccoli sensi da realizzare, come se, in piedi su un sup in mezzo al mare miriamo all'orizzonte, ma ci concentriamo su ogni pagaiata, cerchiamo l'equilibrio se l'acqua si increspa un po', ma nel tragitto sappiamo volgere lo sguardo ad una famiglia di delfini che emerge incurante dei nostri inquieti pensieri!